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Si tratta di una raccolta di saggi su argomenti diversi, in cui Zadie Smith parla con uguale disinvoltura di letteratura, della sua vita personale e di cinema tenendole separate in sezioni intitolate Esistenze, Visioni, Sentimenti, Letture e Ricordi.
La prima sezione si concentra sul mestiere dello scrittore ed è la revisione di una conferenza alla Columbia University: Zadie ci accoglie in qualità di scrittrice e ci introduce al suo mestiere o, meglio, ci accompagna dietro le quinte ed affronta alcune questioni che tormentano gli scrittori da secoli. La prima riguarda proprio la scrittura: la Smith divide gli scrittori in due categorie, Macropianificatori e Microgestori, ammettendo subito di appartenere alla seconda. Non ci si vede proprio a pianificare l’intero corso di una storia decidendo fin dall’inizio come andrà a finire, lei è una cesellatrice di frasi e ce ne racconta le dinamiche… la difficoltà delle prime venti pagine di un romanzo, il rischio di essere colti da sindrome dell’ossessione da prospettiva, lo scrivere e riscrivere gli stessi passaggi infinite volte, la soddisfazione alla conclusione di un romanzo e il malessere nel ripensare invece al periodo in cui si soffriva per scriverlo. La scrittura come lavoro è un argomento su cui molti autori si sono soffermati ed ha risvolti che toccano anche la quota di parole giornaliera (che alcuni addirittura si impongono) o gli orari di lavoro (alcuni sono noti per sedersi alla scrivania al mattino e scrivere seguendo rigide tabelle di marcia, come in ufficio) ma anche la fatica dello scrivere (c’è chi scrive di getto e chi soffre ogni parola) fino ad arrivare al temutissimo blocco dello scrittore.
Ma Zadie affronta subito un altro tema: quello che Harold Bloom chiamava The Anxiety of Influence (L’angoscia dell’influenza), ovvero l’ansia costante che l’influsso di qualche altro scrittore possa prendere il sopravvento e predominare nella propria opera. Anche in questo caso la Smith dichiara subito a che categoria appartiene:
“Certi scrittori sono come quei violinisti che per accordare lo strumento hanno bisogno del più totale silenzio. Altri invece vogliono sentire tutti i membri dell’orchestra… Io sono fatta così. La scrivania su cui lavoro è ingombra di romanzi aperti.”
Infine, si sofferma sulla relazione dello scrittore con la propria opera: figlia prediletta o rinnegata?
La dissertazione di Zadie Smith sui vari aspetti del mestiere dello scrittore, seppur ricca di spunti di riflessione e rivelatrice di una grande preparazione teorica, non mi ha ‘catturata’... e non per una problema relativo al genere (la saggistica) che, in realtà, amo molto. Forse perchè ho preferito la raccolta di Italo Calvino (Lezioni Americane) in cui l’autore propone, in una serie di conferenze destinate all’Università di Harvard, i valori da ‘salvare per il prossimo millennio’, ovvero gli elementi più importanti per lo scrittore dal suo punto di vista. Ne aveva individuati sei ma, purtroppo, ha fatto in tempo a trattarne solo cinque: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Per ciascuno ci rivela la sua ricetta personale e passa in rassegna esempi illustri in maniera davvero avvincente.
Nella sezione VISIONI la scrittrice passa il testimone alla cinefila. Qui si capisce che Zadie Smith ama il cinema, quello classico, quello degli anni d’oro di Hollywood, e lo si capisce dal modo in cui parla di certi film e di certe attrici in particolare… la Garbo, la Hepburn (Katharine, non Audrey). E’ un amore viscerale… anche se si percepisce molto meno nella parte delle recensioni dei film (io quella parte non l’avrei inclusa… non è al livello dell’altra).
La sua analisi di Katharine Hepburn mi fa venire voglia di vedere alcuni suoi film… che ritrovo nel mio archivio in quanto pietre miliari del cinema Hollywoodiano che, lo devo ammettere, anche io apprezzo molto. Ma, in realtà, devo anche confessare che non li ho mai visti… io sono sempre stata una fan di Audrey… non che l’una escluda l’altra… ma ho sempre trovato la prima un po’ troppo ‘spigolosa’, preferendo l’innocenza e l’ingenuità (apparente) della seconda.
Ho così cominciato con ‘La segretaria quasi privata’, seguito da ‘La costola di Adamo’ e… beh… mi sono ritrovata perfettamente d’accordo con quanto scritto da Zadie. I personaggi interpretati dalla Hepburn sono donne forti, veicolo di critica sociale, ma mai scontata, mai banale. Di base si ironizza sull’immagine della donna/moglie anni ‘40 (e ‘50 e poi anche ‘60), relegata in casa, a cura e custodia del marito, ma non c’è solo quello: ci sono rovesciamenti sull’intelligenza come prerogativa maschile, così come riflessioni sul senso materno (che non è così innato come sembra) e, naturalmente, la parità tra i sessi. Così mi rendo conto che quella ‘spigolosità’ che mi respingeva in realtà è uno dei tratti rivelatori della forza e determinazione con cui ha affrontato i suoi ruoli… ma anche la vita.
Nella terza parte abbiamo a che fare con Zadie figlia, una veste molto privata e personale, (non a caso la sezione si intitola SENTIMENTI) nella quale affronta fondamentalmente il rapporto con il padre che, scopriamo, partecipò nientemeno che allo sbarco in Normandia.
Ed infine la incontriamo in veste di lettrice, mentre ci commenta e analizza grandi romanzi e arriva perfino a scomodare Roland Barthes e la teoria decostruzionista della morte dell’autore. Zadie affronta il problema dell’autorialità e della proprietà di un testo, una volta pubblicato. Quanto rimane dell’autore e quanto è invece di proprietà di chi lo legge? Pur ammettendo il fascino che da lettrice ha sempre destato in lei questa teoria, da scrittrice è combattuta e direi quasi restia a cedere le redini. Eppure è vero… ogni lettore porta il proprio vissuto, le proprie esperienze dentro un testo e lo legge reinterpretandolo alla luce di queste, che non coincideranno MAI con quelle dello scrittore… non può essere altrimenti.
Passando con scioltezza da un mestiere, ad un libro, ad un film, ad una fotografia di famiglia ci vengono mostrate le molte sfaccettature di una stessa persona, l’autrice.
ZADIE SMITH'S CULTURAL ECLECTICISM: "CHANGING MY MIND"
It’s a collection of short essays on different topics, where Zadie Smith writes with ease about literature, her personal life as well as films. She keeps all these things apart using sections like Reading, Being, Seeing, Feeling and Remembering.
The first section focuses on the writing job and it’s from a conference at Columbia University: Zadie welcomes us as a writer and introduces us to her job, or better behind the scenes where there are issues that have been troubling writers for centuries. This part is on writing: Mrs Smith divides writers into two categories: Macro planners and Micro managers, and she admits belonging to the latter. She can’t see herself planning the whole story from the beginning to the very end… she crafts sentences and tells us about the dynamic… the struggles of the first twenty pages of a novel, the risk of being caught by the obsessive perspective disorder (when you write and re-write the same sentences again and again), the satisfaction when you finish a novel and the discomfort when you think back to the time you were struggling to write it down. A lot of writers have written about the writing job: some of them have a daily quota of words or fixed working hours (some of them even sit down to their desks early in the morning and write according to a tight schedule). But they also write about the struggle to write (some writers just bang out words whereas others suffer for every syllable) and the feared writer’s block.
She deals with another important topic, directly from Harold Bloom’s The Anxiety of Influence, that is the constant feeling of anxiety that the influence from some other writer takes over and dominates your works. Zadie’s opinion is clear:
Some writers are the kind of solo violinists who need complete silence to tune their instruments. Others want to hear every member of the orchestra—they’ll take a cue from a clarinet, from an oboe, even. I am one of those. My writing desk is covered in open novels.
Finally, she dwells on the relationship between the writer and his/her work: favourite or disowned daughter?
Zadie’s dissertation on the various aspects of being a writer, although thought-provoking, didn’t capture me… and it wasn’t for the genre (essay) which, as a matter of fact, I like a lot. Maybe it’s because I definitely preferred Italo Calvino’s collection of essays on similar topics (Six Memos for the Next Millennium) where the Italian writer suggested -in a series of conferences for Harvard University- the values to be saved for the next millennium, that is the most important things for a writer, from his point of view. The values were supposed to be six but, unfortunately, he could write down only five conferences: lightness, speed, accuracy, visibility and multiplicity. He gave us his personal recipe for each and discussed some illustrious examples… really fascinating.
It’s in the section BEING that the cinephile comes out and we understand that Zadie Smith loves movies, above all the great classics, the golden age of Hollywood. It’s clear from the way she writes about some films and some actresses like Garbo, Hepburn (Katharine, not Audrey). It’s visceral love… although it’s less clear when she reviews films (I wouldn’t have included that part in the collection).
Her analysis of Katharine Hepburn made me want to see her films… which I promptly found in my archive because they are milestones of Hollywood cinema. And I love it, too. But I must admit that I had never watched them… I have always been a fan of Audrey… it’s not like they’re mutually exclusive… but I have always found Katharine a little bit “rugged”, preferring Audrey’s (apparent) innocence and naivety.
So, I started with Desk Set, followed by Adam’s Rib and… well, I fully agree with Zadie’s idea. The characters played by Katharine Hepburn are strong women, vehicles of social criticism, but never obvious, never trivial. They are generally ironic about the image of women in the 40’s (and 50’s and also 60’s), closed in her home, taking care of her husband. But there’s more: there are also reversals on concepts like intelligence as a male prerogative, as well as reflections on motherliness (which is not as inherent as it seems) and, of course, gender equality. I finally realized that the roughness is actually one of her most peculiar traits, revealing the strength and the determination with which she played her roles… and lived her life.
In the third part we can learn about Zadie as a daughter, a very private and personal picture of her relationship with her father who took part in D-Day in Normandy.
And finally Zadie as a reader comments and analyzes great novels, mentioning Roland Barthes and the deconstructionist idea of the death of the author. She deals with topics such as authorship and ownership of a text, once published. How much remains of the author and how much belongs to the reader? When she was a reader she was interested in the theories of appropriation, but as a writer she feels torn on that same topic, even reluctant to hand over the reins. And yet… it’s true… anyone can bring his/her own experiences into a text and re-interpret that text accordingly, a reinterpretation that can’t coincide with the writer’s idea.
Passing from a job, to a book, to a film, to a family photo… we are shown different facets of the same person, the author.
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