13 lug 2013

Jeanette Winterson: Il custode del faro

“Mia madre mi chiamò Silver. Nel mio nome il marchio del metallo prezioso e l’anima del pirata.”

L’inizio è bellissimo: poetico e semplice al tempo stesso. Inutile sottolineare l’atmosfera alla Melville (‘Chiamatemi Ishmael…’): ancora più semplice e forse proprio per questo più potente. La prosa è spesso al limite della poesia in questo libro: qualcuno l’ha trovato il suo peggior difetto, per me è stato il miglior pregio. Le frasi da citare sono tante, troppe per farle stare in un post (ma perfette per ‘cinguettare’ di quando in quando per qualche giorno).

Le epigrafi all’inizio del libro già dicono tutto e il contrario di tutto (Ricordati che devi morire / Ricordati che devi vivere): in mezzo c’è un mondo di storie. Sì,  perché le storie, o meglio, lo story-telling (il raccontare storie) sono al centro di quest’opera. Lo storytelling inteso come intrattenimento, formazione, rituale di passaggio, nel suo valore originario, dunque, ricorre continuamente: l’artefice è Pew, il guardiano cieco del faro, mentre Silver è l’apprendista (alla fine infatti sarà lei a fare le veci di Pew e prendere in mano le redini del racconto). L’impressione è quella di tante storie che si susseguono all’interno di una sola. L’arte del raccontare, la narrazione, viene messa in relazione con il faro.


Il faro assurge a simbolo della narrazione ed il custode del faro ne è lo strumento ("Un custode del faro era considerato bravo se sapeva più storie dei marinai…"). Il compito di Pew, "un vecchio con una borsa di storie sotto il braccio", è quello di addestrare Silver a raccontare storie.

La presentazione dei luoghi e dei personaggi proietta subito il lettore in un’atmosfera surreale, da fiaba: la protagonista ha origini particolari e vive in una casa “in pendenza in cima a un dirupo”… e quando dice in pendenza non scherza, tant’è che madre e figlia sono costrette a muoversi tenute da un'imbracatura per non cadere giù nel dirupo. Come in una fiaba che si rispetti la tragedia è dietro l’angolo e dopo poche pagine, la madre muore per salvare la figlia, che continuerà la sua avventura in modo ancor più bizzarro, facendo compagnia al vecchio guardiano cieco del faro. E qui i topoi si rincorrono, mito e fiaba si mescolano e lo story-telling impazza.

Tutta la parte della storia del faro è stata ispirata, secondo me, dal bellissimo libro di Bella Bathurst, Lo splendore degli Stevenson, che ho letto tempo fa e che approfondisce il destino della stirpe degli Stevenson, che avevano dedicato la loro vita alla costruzione dei fari scozzesi. Tutti tranne uno, diventato famoso come l’autore di Dr Jekyll e Mr Hyde e L’isola del tesoro, a cui si fa riferimento spesso, in un gioco di rimandi intrigante per il lettore attento.

Un cenno a parte meritano i nomi, sia quelli dei personaggi che dei luoghi. Silver e Pew entrano a far parte del ‘gioco stevensoniano’: sono tratti infatti da ‘L’isola del tesoro’ (anche se della malvagità dei personaggi originari non hanno nulla…), Babel Dark porta in sé riferimenti biblici e letterari insieme (la torre di Babele e la parte oscura dell’uomo). La storia di Babel incarna quella di Jekyll e Hyde: come il protagonista stevensoniano, Babel Dark ha due nature ma rovesciate perchè la parte cattiva è quella reale mentre quella buona emerge solo in un secondo tempo ed è quella che viene tenuta nascosta. La svolta: Stevenson diventa uno dei personaggi del racconto e fa visita a Babel Dark, il quale gli ispira la storia di Jekyll e Hyde. Nella storia fa capolino anche Charles Darwin, che funge da controcanto alla riflessione sullo storytelling: come lui studiava le origini dell’uomo, Jeanette Winterson pare interrogarsi sulle origini della narrazione.

P.S.: Ho trovato un video promozionale su YouTube molto bello:

 Per vedere dove è ambientata la storia: Cape Wrath.

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JEANETTE WINTERSON: LIGHTHOUSEKEEPING
“My mother called me Silver. I was born part precious metal part pirate.” The first line is beautiful: poetical and simple at the same time. It’s impossible not to think about Melville and his ‘Call me Ishmael’: even simpler and more powerful. Prose is often on the brink of poetry in this book: some found it a flaw, I found it a good point. There’s a lot worth quoting, too much for a single post (…but perfect to “tweet” every now and then for a couple of days).

The epigraphs at the beginning of the book say everything and its opposite (Remember you must die / Remember you must live): in the middle there’s a world of stories. Indeed, because stories, or better storytelling is at the core of this work. Storytelling is meant as entertainment, formation, rite of passage and it’s according to its original meaning that it recurs throughout the book: the craftsman is Pew, the blind lighthouse keeper, whereas Silver is the apprentice (she takes Pew’s place in the end, holding the reins of the story). I got the impression of a series of stories intertwined in one. The art of storytelling, the narration, is related to the lighthouse (IT WAS SOON DISCOVERED THAT EVERY LIGHT[HOUSE] HAD A STORY – NO, EVERY LIGHT WAS A STORY, AND THE FLASHES THEMSELVES WERE THE STORIES GOING OUT OVER THE WAVES, AS MARKERS AND GUIDES AND COMFORT AND WARNING), which rises as a symbol of narration itself and the lighthouse keeper represents the instrument of narration (A GOOD KEEPER WAS ONE WHO KNEW MORE STORIES THAN THE SAILORS). Pew’s task (AN OLD MAN WITH A BAG OF STORIES UNDER HIS ARM) is to teach Silver the art of storytelling.

People and places introduce the reader into a surreal fairy-tale atmosphere right from the start: the protagonist has unusual origins and lives “in a house cut steep into the bank”… and when she says ‘steep’ she does mean it… so much so that mother and daughter must use a harness not to fall down. Like in every good tale, tragedy is just around the corner and, after a few pages, the mother dies in order to save her daughter, who oddly ends up with the blind lighthouse keeper. From then on, motif after motif, myth and fairy-tale intertwine and storytelling is in full spin.

The part on the history of the lighthouse was inspired -I think- by Bella Bathurst’s beautiful book, Lighthouse Stevensons, that deals with the fate of the Stevensons, who devoted their lives to the construction of Scottish lighthouses. All except one, who became the famous author of The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde and Treasure Island. Those books are often referred to, in some sort of quotation game for the attentive reader.

A mention apart is deserved by the names, both the characters’ and those of places. Silver and Pew are part of Stevenson’s quotation game: they both come from Treasure Island (even is they don’t have anything of the original characters’ wickedness). Babel Dark bears biblical as well as literary reminiscences: the Tower of Babel and the dark side of man. In fact Babel’s story embodies Jekyll’s: like him Babel Dark has got two opposite personalities. In his case these personalities are reversed: his evil side is real, whereas his good side comes out after a while and is kept secret. Unbelievable: Stevenson is one of the characters and pays a visit to Babel Dark, whose story inspires him his masterpiece. Charles Darwin is also one of the characters, whose function is related to the author’s reflection on storytelling: he studied the origins of man, just like Jeanette Witerson seems to ask herself –or the reader- about the origins of narration.

 P.S.: Watch the promo I found on YouTube!

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