11 mag 2019

L'accordo inglese: calcio, orgoglio e pregiudizi


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Evidentemente il mondo dello sport affascina l'autore, D. J. Taylor. Come in Derby Day, anche in questo caso tutto ruota attorno ad un evento sportivo, una partita di calcio, alla quale sono legate le sorti della squadra e anche della società che ne gestisce la consulenza. Il protagonista, Scott Marshall, è un perdente: ci viene rivelato fin dalle prime pagine con la spiegazione della ‘logica della ciambellina’, ovvero la teoria secondo la quale i giudizi sulle persone sono spesso basati su criteri arbitrari. Nonostante ciò, uno crede di star leggendo la storia del riscatto sociale ed economico di questo personaggio, quando… ora della fine… si rende conto che invece non si tratta altro che della dimostrazione di quanto appreso all’inizio. Questa consapevolezza non arriva come una delusione, comunque, perchè lo stile dell'autore è fluido ed il libro si legge con piacere. 
Quello su cui vorrei soffermarmi, piuttosto che sulla trama, è l’aspetto dell’americanità di Scott che, a partire dall’apparente riscatto su suolo inglese, pervade il racconto in maniera quasi ossessiva. Il personaggio, infatti, è in qualche modo combattuto tra l’animo americano e la nuova patria di adozione: una patria che, a differenza dell’America, non lo ha rigettato. La sua dichiarazione di americanità tradisce però un punto di vista inglese, poichè egli stesso divide gli americani in due categorie (come a dire ‘educati’ e ‘maleducati’):
“...che tipo di americano sono io? La risposta è: quel tipo di americano. Quello che se ne sta ostentatamente in piedi, davanti all’uscita del treno della metropolitana, lindo ed elegante nell’alba piovosa, a leggere una copia del Wall Street Journal. Quello che chiama tutti gli uomini cinque anni più vecchi di lui ‘signore’ e tutte le donne cinque anni più giovani di lui ‘signorina’. Quello che si alza spontaneamente per offrire il suo posto alle vecchie signore. Quello che ha tutti i principali prefissi telefonici europei scritti sul retro della sua agenda tascabile. Quel tipo di americano. Il che significa, non quell’altro.”
Poi, però, usa il pronome personale NOI per parlare degli americani e VOI per gli inglesi ed è fin troppo consapevole dello stereotipo dell’americano per gli inglesi:
“...voi ci disprezzate. Ci trovate esuberanti, ingenui, compiacenti, troppo seri riguardo ad alcune cose (denaro, potere, religione), ma non abbastanza seri riguardo ad altre (film, consumismo e politica).”
 Spesso D. J. Taylor tira in ballo gli stereotipi: il padre del protagonista ha una passione per tutto ciò che è inglese, rivelando però un’immagine profondamente confusa di quel Paese.
“...l’Inghilterra era un posto dove giovani donne dalla pelle chiara con almeno due cognomi andavano costantemente a cavallo , cercando disperatamente, mentre lo facevano, di somigliare ai destrieri che le reggevano…”
 E’ evidente lo scontro tra le due diverse civiltà e Scott è il primo a sottolinearlo in continuazione: 
“Nel mio paese le segretarie sono tutte principesse ebree che fanno un secondo lavoro come modelle… Qui sono ragazze grassocce e con la voce nasale i cui polpacci muscolosi hanno la consistenza delle salsicce di fegato.”
Oppure:
“Smettono di lavorare presto questi inglesi. Negli Stati Uniti, restare legati alla scrivania fino alle ore piccole è un segno di virilità e nessuna donna intelligente che lavori dà mai un appuntamento prima delle nove.”
L’osservazione degli inglesi dal punto di vista americano, operazione che è riuscita molto bene all’autore (se consideriamo che è inglese e che quindi ha dovuto praticamente auto-analizzarsi), mi ha ricordato un libro che ho molto apprezzato: Watching the English di Kate Fox. In questo testo l’autrice, una antropologa, rivela le abitudini, i modi di pensare e le piccole manie dei suoi compatrioti e li analizza in maniera pungente. Ebbene, tutto ciò che è stato descritto dalla Fox l’ho ritrovato ne L’accordo inglese al punto da pensarlo ad un certo punto come un allegato esemplificativo del testo della Fox. 

Andiamo con ordine.
Quelle che l’antropologa chiama ‘le regole della presentazione’ e spiega come la prima volta che ti presentano ad una persona è un momento caratterizzato da goffaggine, incertezza, gesti impacciati . Lei la chiama la ‘Regola dell’Imbarazzo’: 
“Uno deve sembrare a disagio, rigido, goffo e, soprattutto, imbarazzato. Calma, loquacità e sicurezza di sè sono inappropriate e per niente English.”
Il personaggio di Miranda nel libro appare “del tutto a suo agio con la serie di toni di voce nervosi e i gesti incerti che accompagnano la conoscenza occasionale”.
Un’altra regola di cui troviamo esemplificazione è il cosiddetto ‘taboo del denaro’, secondo il quale
“La nostra avversione per il denaro come argomento di conversazione quotidiana è ben nota: non si chiede mai a qualcuno cosa guadagna, né si rivela il proprio reddito; non si chiede mai a qualcuno quanto abbia pagato qualcosa, nè si annuncia il prezzo di qualcosa di nostro”.
L’atteggiamento americano è esattamente l’opposto, come ci rivela il povero Scott: “Durante i miei primi tempi qui, feci l’errore fatale di chiedere a un tizio … quanto guadagnasse e, da sei o sette persone a portata d’orecchio, si udì levarsi un mormorio inorridito, ed Henrietta non si fece scopare da me per un mese”.
Henrietta, in realtà, è una sorta di Caronte che traghetta il povero Scott da una cultura all’altra, come accade quando lo istruisce sull’understatement inglese… una lezione difficile! Secondo la Fox la ‘Regola dell’Understatement’ è una delle regole che governano lo humour e ce la spiega così: 
“la regola dell’understatement significa che una malattia cronica debilitante verrà descritta come ‘una gran seccatura’; un’esperienza davvero orribile sarà ‘beh, non esattamente ciò che avrei scelto’; una vista mozzafiato sarà ‘carina’; una prestazione eccezionale sarà ‘non male’; un atto di abominevole crudeltà sarà ‘non molto gentile’, ed un imperdonabile e stupido errore di valutazione sarà considerato ‘non molto astuto’; l’Antartico è ‘un po’ freddino’ ed il Sahara ‘un po’ troppo caldo per i miei gusti’.”
Ecco che Scott impara dalla classificazione che Henrietta fa delle sue amiche: “carina, che significa ‘eravamo a scuola insieme’; dolce, che significa mia madre conosce sua madre; e -stupendo commento di disapprovazione- non la vedo molto di questi tempio che, da quanto posso dedurre, significa capace di rubarti i soldi dalla borsetta.”
Ed ora veniamo al calcio, il mondo nel quale il protagonista si trova proiettato e che sembra non apprezzare: “mi rendo conto di avere agganciato uno di quei fanatici inglesi maniaci degli sport, il tipo di persone che, a quanto si legge sui giornali, trascorrono le loro vacanze facendo il giro dei campi di rugby del Nord dell’Inghilterra o che rimandano il loro matrimonio perchè cozza con un’esercitazione della squadra di riserva”... descrizione che mi fa pensare al protagonista di un libro di Nick Hornby, Febbre a 90°, meravigliosamente interpretato nell’omonimo film da Colin Firth. Anche in questo caso Katie Fox ha qualcosa da dire: 
“C’è una regola non scritta che dice che si sceglie quale squadra di calcio seguire molto presto e poi sarà quella per sempre: la fedeltà non potrà mai essere deviata verso un’altra squadra.”
Visto e considerato che la storia, condita di un po’ di colore calcistico, non porta praticamente da nessuna parte, ciò che più mi ha interessata in questo libro, come si è capito, è stato proprio il gioco di analisi dei rispettivi stereotipi e della diversità tra i due Paesi

Questo mi ha spinta a fare una ricerca online che mi ha portata ad un progetto molto interessante: LA MAPPA DEGLI STEREOTIPI MONDIALI, ideata da un artista slovacco, Martin Vargic (dopo tre mesi di ricerca sui preconcetti per e tra le varie nazioni del mondo). Come funziona? Basta cliccare su un punto del mondo per ingrandire la visualizzazione ed è possibile scorgere tra le paroline scritte sulla mappa non i nomi dei luoghi, bensì ciò che il mondo pensa al riguardo.







ENGLISH SETTLEMENT: FOOTBALL, PRIDE AND PREJUDICES
Apparently Mr Taylor is fascinated by the world of football. In English Settlement, like in Derby Day, everything revolves around a sporting event, a football match: the fate of the team as well as its consulting company depend on it. The protagonist, Scott Marshall, is a loser: we know that from the very beginning of the book with the explanation of the ‘Pretzel logic’, that is a theory of “judgements based on quite arbitrary criteria”. So... you believe the book is about the protagonist’s social and economical redemption, but… in the end… you realize that it’s nothing but a demonstration of the initial theory. The realization doesn’t come with disappointment, because D. J. Taylor’s style is fluent and pleasant.
Rather than on the plot, I would like to spend a few words on Mr Scott’s Americannes permeating the text. The protagonist is indeed torn between being American and his country of adoption, which -unlike the U.S.A.- didn’t reject him.
His declaration of Americannes betrays a British point of view, as he divides American people in two categories (that is polite and rude):
“...what kind of American am I? The answer is that kind of American. The kind that stands ostentatiously in the subway train doorway, spruce and elegant against the rainy dawn, reading a copy of the Wall Street Journal. The Kind that calls any man more than five years older than him ‘Sir’ and any woman more than five years younger ‘Miss’. The kind that leaps up unbidden to offer his seat to old ladies. The kind that has all the principal Continental dialling codes filed in the back of his pocket book. That kind of American. Rather, that is, than the other kind.”
But then he uses the pronoun WE to talk about Americans and YOU to talk about the English and he’s almost too conscious of stereotypes:
“...you despise us. You find us brash, ingenuous, complacent, too serious about some things (money, power, religion), not serious enough about other things (movies, consumerism, politics).”
Mr Taylor often brings up stereotypes: the protagonist’s father has a passion for anything British, but he has a confused image of the country:
“...England was a place where clear-skinned young women with at least two surnames constantly rode, contriving as they did so to look distressingly like the steeds that bore them..:”
The clash of cultures is an important topic and Scott is constantly highlighting differences:
“Back home the secretaries are all moonlighting Jewish princesses between modelling jobs… Here they’re lumpen, adenoidal girls whose muscular calves have the texture of liver sausage.”
Or:
“They leave work early, these English. In the States to stay tethered to your desk until the small hours is a mark of virility, and no wideawake business girl ever makes a date earlier than nine.”
Watching the English from an American point of view is something the author is very good at, if we consider the fact that he’s English and this has certainly required a lot of self-analysis. I've found a similar attitude in Kate Fox’s Watching the English. In this book Ms Fox, an anthropologist, studied and described the habits, the ways of thinking and the little quirks of the English. Well, most of what I’ve read in her book is also in English Settlement, to the point of practically being (the latter) a compendium of Ms Fox’s book.
Some examples.
What the anthropologist calls ‘the rules of introduction’ is described as being characterized by clumsiness, insecurity, awkward movements... leading to the ‘Embarassment Rule’: “One must appear self-conscious, ill-at-ease, stiff, awkward and, above all, embarassed. Smoothless, glibness and confidence are inappropriate and un-English”.
The character of Miranda seems “comfortably at ease with the range of nervous intonations and unconfident gestures that accompany the casual pick-up.”
Another rule exemplified in English Settlement is the so-called ‘Money-Talk Taboo’. According to Ms Fox: “Our distaste for money-talk in everyday social life is well established: you never ask what someone earns, or disclose your own income; you never ask what price someone paid for anything, nor do you announce the cost of any of your own possessions.” Well, the American attitude is quite the opposite, as Mr Scott tells the reader: “Early on in my time here I made the fatal error of asking… how much he earned, and you could hear a horrified murmur rise up from the six or seven people in earshot and Henrietta wouldn’t let me fuck her for a month.”
Henrietta is quite an important character, she’s some sort of Charon leading poor Scott from one culture to the other. For example, she teaches him the English understatement… a difficult subject! According to Ms Fox the ‘Understatement Rule’ is one of the rules governing British humour as she explains: “the understatement rule means that a debilitating and painful chronic illness must be described as ‘a bit of a nuisance’; a truly horrific experience is ‘well, not exactly what I would have chosen’; a sight of breathtaking beauty is ‘quite pretty’; an outstanding performance or achievement is ‘not bad’; an act of abominable cruelty is ‘not very friendly’, and an unforgivably stupid misjudgement is ‘not very clever’; the Antarctic is ‘rather cold’ and the Sahara ‘a bit too hot for my taste’.” Scott learns all that as soon as Henrietta talks about her friends, who “are classified as … nice, which means ‘We were at school together’; sweet, which means ‘My mother knows her mother’; and I don’t see much of her these days, which so far as I can deduce means liable to steal money out of your handbag.”
And now we come to football, the world where the protagonist is thrown into and he apparently dislikes: “I realise that I’ve hooked up with one of those rapt English sports obsessives, the kind of guys you read about in the paper who spend their vacations touring rugby grounds in the North of England or postpone their wedding because it clashes with a reserve team practice.”... and this reminds me in some ways of the protagonist of Nick Hornby’s Fever Pitch, wonderfully played in the homonymous film by Colin Firth. Katie Fox knows the rules of football fans, too. “There is an unwritten rule that says you choose which football team to support at a very young age, and that’s it, forever: you never switch your allegiance to another team.”
Well, the story (even with some footballing colour) doesn’t seem to lead anywhere in the end… the most interesting aspects were in my opinion the analysis of stereotypes and the clash of cultures. I also made some online research and I’ve found out a very interesting project: a MAP OF THE WORLD'S STEREOTYPES, created by a Slovakian artist, Martin Vargic, after three months’ research on prejudices on and between nations.

Scarica gli articoli relativi a D. J. Taylor come eMagazine:

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