20 mag 2024

'PROMISED LANDS': il sogno infranto di un’utopia coloniale

 


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E’ stato definito un trittico, poichè si compone effettivamente di 3 parti: c’è il resoconto dello sbarco in Australia e gli inizi della colonizzazione, che prende la maggior parte del libro e che si alterna con il racconto in prima persona di un insegnante inglese e quello (sempre in prima persona) di sua moglie. 

Apparentemente slegate, le tre parti prendono significato mano a mano che la lettura procede e diventano interdipendenti. Il primo evidente legame che scopriamo è quello tra Stephen Beech e William Dawes: l’insegnante è anche l’autore del resoconto coloniale australiano che infatti è interrotto inizialmente dalle sue osservazioni come narratore e, successivamente, da interessanti paralleli tra le vicende coloniali ed il suo rapporto con la moglie. Anche le riflessioni della moglie, inizialmente incentrate sul rapporto con il marito e la necessità di proteggere il proprio bimbo disabile, sembrano portare ad un fallimento. In generale, le tre storie sono esemplificative di idealismi che si infrangono contro gli scogli della realtà. I sogni di ciascuno, supportati da nobili ideali, da conferme in qualche modo scientifiche, vengono erosi da umani egoismi, minacciati dalle tentazioni, fuorviati da errori fino a diventare qualcosa di completamente diverso da quanto immaginato, lasciando un retrogusto amaro… una scia di frustrazione, di fallimento.

Dawes, ufficiale della flotta che sbarca a Botany Bay nel 1788, guidato da una forte etica del lavoro e una fervente religiosità cristiana, si sente protagonista di una utopia di rinnovamento e rinascita. Vive l’impresa come una redenzione per i galeotti e una gloria per i colonizzatori, ma si deve ricredere: le avversità del nuovo continente, la natura fallace dell’animo umano, presto rivelano i lati oscuri della colonizzazione. Il suo profondo interesse per i nativi si scontra ben presto con la totale indifferenza del Governatore; la sua religiosa visione di redenzione si infrange di fronte alla reale natura dei prigionieri, uomini e donne; e perfino la sua etica del lavoro viene messa a dura prova.

Dal canto suo Stephen, che sta narrando la storia di Dawes, vive un doppio fallimento, come insegnante e come marito. I suoi ideali di un’educazione egualitaria si scontrano con il fallimento del sistema da lui stesso pensato. La conquista della moglie, che viene in qualche modo paragonata con la colonizzazione messa in opera da Dawes, si rivela fallimentare ed il rapporto naufraga definitivamente dopo la nascita del figlio, Daniel, verso il quale la madre ha un attaccamento devozionale, gli si consacra come a una divinità ("My role is to deliver  a saviour"). Il suo racconto è una sorta di pellegrinaggio mistico che, paradossalmente, la conduce ad un epilogo più favorevole, rispetto alle altre due storie.


Libro che mi è piaciuto moltissimo, nonostante l’abbia iniziato tre volte prima di riuscire a terminarlo. Probabilmente, come sempre accade con i libri, bisogna trovare il momento giusto. Per fortuna ho insistito: sapevo che era un argomento che non poteva non piacermi, la terza volta ho ricominciato tutto daccapo… ed ho avvertito subito che era la volta buona. E' davvero una vergogna che non sia stato tradotto in italiano: ha anche preso il Best Fiction Award della Writers’ Guild quando uscì.

Innanzi tutto ho ritrovato tutta la teoria postcoloniale che ho letto ai tempi dell’università (il ruolo del colonizzatore, il concetto di dominio, di identità, di cultura) così come la storia (vera) della colonizzazione dell’Australia, una delle imprese più difficili sotto molti aspetti: una terra arida e inospitale, una popolazione indigena estremamente resiliente e poco incline ad abbandonare le proprie tradizioni, una colonia formata da cittadini rifiutati in patria, deportati e condannati ai lavori forzati. Tutto questo ci viene raccontato da Jane Rogers attraverso la storia di un uomo realmente esistito e grazie ad un’attenta ricerca storica, una storia che si apre con richiami drammatici a Coleridge (La ballata del vecchio marinaio), continua con paralleli e richiami a William Blake (non a caso i riferimenti sono ai Songs of Innocence and Experience, una raccolta che passa dall’innocenza originale alla perdita d’innocenza in seguito al contatto con il mondo materiale dell’età adulta: qui ovviamente i riferimenti riguardano questa seconda condizione e sono infatti verso la fine del libro) e finisce con un racconto aborigeno del Dreamtime/Tempo del Sogno, nel quale Dawes finalmente comprende la cultura aborigena, secondo la quale alcuni luoghi dove sono accaduti eventi drammatici, mantengono un’aura particolare, chiamata il ‘sogno’, che dona a quel luogo una sacralità particolare e fa sì che ogni essere vivente e ogni luogo siano in qualche modo legati in una dimensione che unisce passato e presente.

C’è molto da pensare!






PROMISED LANDS: THE BROKEN DREAM OF A COLONIAL UTOPIA

It was defined as a triptych and indeed it consists of three parts. There’s the report of the first landing in Australia at the beginning of the British colonisation: this part takes most of the book and alternates with the first-person narration of an English teacher and another narration (in first-person as well) by his wife.

Apparently unrelated, the three parts gradually take on meaning as long as the story unfolds and they also become interdependent. The first link is between Stephen Beech and William dawes: the teacher is also the author of the Australian travelogue, which is also interrupted here and there by his narrative remarks and also similarities between the colonial experience and his relationship with his wife. 

His wife’s narration focuses on her relationship with her husband, too, as well as with her need to protect her disabled child. Both things seem to lead to failure.

In general, the three stories are examples of idealism breaking on the rocks of reality. The dreams of each character -supported by noble ideals and some scientific confirmation- are eroded by human selfishness, threatened by temptations, led astray by mistakes until they become something completely different and leave a bitter aftertaste… frustration, failure.

Dawes is an officer of the fleet landing at Botany Bay in 1788: he’s driven by a clear ethic of work and fervent religiousness, he feels at the centre of a utopia of renewal and social renaissance. He believes in the convicts’ redemption as well as the colonisers’ glory, but he soon changes his mind: adversity and the fallacious nature of the human soul soon reveal the dark sides of colonisation. His deep interest for the natives clashes with the Governor’s total indifference; his religious vision of redemption is shattered in front of the real nature of convicts, men and women; even his work ethic is put to the test.

For his part, Stephen is living a double failure: as a teacher and as a husband. His ideals of an equal and democratic education face the failure of his own project. The conquest of his wife is somehow compared to Dawes’s colonisation and fails: their relationship is destroyed after the birth of their child, Daniel, to which the mother has a devotional attachment, consecrating herself to the child like to a deity ("My role is to deliver a saviour"). Her narration is a sort of mystical pilgrimage that, paradoxically, leads her to a more favourable ending than the other two stories.

I really liked this book, although I had tried three times before being able to finish it. It was probably not the right moment, as is typical with books. Fortunately, I persisted: I knew it was a topic I couldn’t dislike, and so… the third time I started all over again… and I knew that was the good one.

First of all, I have found again all the postcolonial theories I had studied at university (the role of the coloniser, the concepts of domination, identity, culture…) as well as the (real) history of the colonisation of Australia, one of the most difficult enterprises in many respects: a dry and inhospitable land, an extremely resilient indigenous population, unwilling to reject their traditions, a colony formed with rejected citizens, which had been deported and sentenced to forced labour. All this is told by Jane Rogers through the story of a man who really existed and, thanks to careful historical research. It’s a story that opens with strong dramatic references to Coleridge (The Rhyme of the Ancient Mariner); it goes on with similarities with William Blake (unsurprisingly she refers to the Songs of Innocence and Experience, a collection of poems centred around the loss of original innocence as a result of the contact with the material world of adulthood); and it ends with an Aboriginal legend of the Dreamtime, where Dawes can finally understand the Aboriginal culture, according to which some places where dramatic events have occurred, keep a strong aura called ‘the Dream’, some sort of sacredness that links every human being and every place on earth in a temporal dimension, combining past and presence.

There's a lot to think about!

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