Il protagonista de Il favorito di Rose Tremain è un briccone a cui inizialmente si fatica ad affezionarsi: lui stesso si
paragona ad un maiale e descrive sia il suo aspetto fisico che le sue abitudini
in termini niente affatto lusinghieri. Si prende gioco di sè, si
definisce spesso Buffone. Le manifestazioni corporali abbondano, così come le
azioni immorali. Perché mai un lettore dovrebbe immedesimarsi in un simile
personaggio? Eppure, ad un certo punto, ci si ritrova a passare dal disappunto
all’empatia, attraverso il divertimento suscitato da alcune situazioni comiche
in cui il poveretto si ritrova.
La storia di Merivel si intreccia con la storia di Londra e strizza
l’occhio sia alla tradizione picaresca all’origine del Tom Jones sia alla tradizione diaristica di Pepys e Evelyn: è
infatti testimone dell’epidemia di peste e del grande incendio che distrusse la
città verso la metà del Seicento. Come ogni buon furfante che si rispetti, esce
illeso da entrambi gli eventi.
C’è anche un excursus sulla pazzia: Merivel
raggiunge il suo caro amico Pearce in una sorta di manicomio quacchero dove,
ahimè, non tarda a combinare un grande pasticcio e viene costretto a sposare
una pazza dopo averla ingravidata. Non poteva mancare, a questo proposito, un
riferimento al tema dell’Ofelia shakespeariana, tema a me caro e di cui mi sono
occupata spesso.
Infatti Merivel sogna la morte per annegamento della moglie e
la descrizione del cadavere in acqua richiama alla memoria la famosa Ofelia
preraffaellita di John Everett Millais: “I capelli fluttuavano tra l’erba del
fiume e la bocca era bluastra e aperta come quella di un pesce.”
Il film tratto dal libro si intitola ‘Restoration’ ed ha come
protagonista Robert Downey jr. che nel ruolo del briccone è davvero indovinato,
anche se forse gli manca un po’ di bruttezza e quella pinguedine di cui il
protagonista del libro si lamenta. L’episodio catartico del cuore è reso molto
bene, anche se nel film il re lo nota in questa occasione e lo manda a chiamare
a palazzo per la sua audacia, mentre nel libro viene accolto a palazzo su intercessione
del padre. Molto bello l’affresco della Londra al tempo della Restaurazione: i
costumi, i paesaggi, le azioni, tutto riporta lo spettatore indietro nel tempo.Il sequel, Merivel. Un uomo del suo tempo, è altrettanto bello: fin dalle prime righe si ritrova l’inconfondibile tono di Merivel, sicuramente più amareggiato dalla vita, più rassegnato, più vecchio insomma… Sono passati 20 anni dal primo libro e lo stesso tempo è passato nella vita del protagonista: tutti intorno a lui sono invecchiati, compreso il suo fedele servitore Will, che è ormai decrepito. L’atmosfera che pervade il testo all’inizio, e che domina anche i sentimenti del protagonista è la malinconia, da cui cerca di rifuggire per tutto il libro. Il tono con cui parla di questo sentimento rivela le approfondite ricerche dell’autrice e, al tempo stesso, la grande capacità di riuscire a non cadere mai nell’enciclopedico, nel non essere mai sfacciata con i riferimenti. E’ chiara, dal modo in cui Robert Merivel parla del suo stato d’animo, la conoscenza della teoria degli umori dell’epoca e, soprattutto, dell’opera di Robert Burton (Anatomia della Malinconia). Nel Seicento c’era la convinzione che l’indole dell’uomo fosse determinata dalla trasformazione dei quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) in sostanze liquide corporee chiamate UMORI. Il predominare di una di queste sostanze determinava una disarmonia e quindi uno stato patologico: così la malinconia era determinata dalla ‘bile nera’ e nel 1621 il trattato di Robert Burton ne disquisiva come di una malattia della quale si davano cause, conseguenze e rimedi. Merivel viene rimproverato dalla figlia che lo invita a cercare di superare questo suo stato e lui stesso ne parla come di una malattia da cui guarire… tale malattia risulta ancora più grave se chi ne è colpito è il giullare del re.
Merivel è consapevole di questo suo ruolo e teme
di vederlo compromesso. Il nostro eroe è un dottore, ma non
appartiene ai ‘physicians’ reali: ha iniziato la sua carriera a corte ‘curando’
i cani del re e ne ha ottenuto la benevolenza grazie alla capacità di farlo
ridere e tenerlo di buon umore. In questo secondo libro Merivel, che è in vena
di riflessioni, soprattutto quando è preso da qualche ‘attacco di malinconia’,
fa spesso riferimento al Re Lear e a quella ‘foolishness’ che lo
contraddistingue nel momento della pazzia. Con un gioco di parole Merivel teme
di passare da ‘Fool’ (giullare, buffone… del re) a ‘foolish’ (sciocco, stupido).
Del primo libro viene mantenuta la struttura episodica, ma questa
volta ho avvertito fortemente l’atmosfera di una morality play al contrario più che di un romanzo picaresco. Si
percepisce la struttura del Pilgrim’s
Progress (testo che appartiene pienamente all’epoca di Merivel e che, a sua
volta, faceva riferimento all’Everyman):
Merivel è un anti-Everyman che, sentendo la morte vicina, vuole realizzare un
qualche ‘compimento’ per rendere la sua vita degna di essere stata vissuta ma,
vista la sua superficialità, non porta a termine nessuno dei suoi buoni
propositi. Il parallelismo con il percorso del pellegrino è chiaro se
prendiamo in considerazione il sottotitolo dell’opera di Bunyan: ‘from this world to that
which is to come’. E’ il percorso che Merivel compie sotto la guida del fantasma di Pearce, il suo amico quacchero, che era morto di peste nel primo
libro (non a caso è quacchero anche il punto di vista di Bunyan). La natura
episodica è dunque più vicina a quella del pellegrino che al picaro: i vari
incidenti che continuamente distolgono il protagonista dai suoi buoni propositi
non sono che ostacoli volti a deviarlo dalla redenzione.
Ci sono vari riferimenti a ciò nel testo,
a partire dalla scansione dei capitoli: con un’ottica religiosa si passa da ‘The
Great Enormity’ a ‘The Great Captivity’, ‘The Great Consolation’ per approdare
infine a ‘The Great Transition’. Sono le tappe di un anti-pellegrino che infine,
pur non avendo fatto ammenda, riesce a interpretare nella giusta prospettiva la
sua vita (prima di morire infatti rilegge il diario che corrisponde al primo
libro e vede che ‘haste’ e ‘foolery’ e ‘madness’ hanno dominato la sua vita e
le sue scelte). Un altro riferimento importante viene da Merivel stesso, in
preda ad una sorta di epifania, quando scrive ‘I was a poor Sir Nobody’… il contrario
di Everyman, appunto.
Un altro aspetto interessante di questo secondo libro è la presenza di
un paragone costante tra uomini e animali: fin dalle prime righe del primo
libro Merivel si era paragonato ad un animale e ciò che lo contraddistingue è spesso,
in quel testo, l’abbandonarsi a bisogni primari, animaleschi. In questo sequel
l’immagine viene sviluppata e assurge a metafora: Merivel paragona molte
persone che incontra ad animali ma, soprattutto, allaccia il suo destino a
quello dell’orso che porta a casa da Versailles. La prima volta che
lo vede è in gabbia e sta soffrendo: ne prova una pena infinita, al punto da
pagare per portarlo con sé in Inghilterra. Da questo momento in poi il destino
dell’orso e quello di Merivel sono legati metaforicamente. La condizione dell'animale non è troppo
diversa da Merivel: ‘It has ceased to howl and is sitting in a puddle of its own
excrement, staring out at the world’. Anche Merivel non è più preso
dagli attacchi di pianto dei primi capitoli, ma è ben lontano da aver compiuto
ciò che desiderava, sta ancora nel suo ‘brodo’ ad attendere di portare a
compimento un’impresa che gli è ancora sconosciuta. Qualche pagina dopo è lui stesso ad ammetterlo:
“it was not difficult to imagine myself as the animal in the cage, constrained
as to what success I could ever achieve, after the lamentable failure of my
effort at Versailles’.
MERIVEL: A RASCAL AT THE KING'S COURT
The protagonist of Restoration by Rose Tremain is a rascal with no chances of getting into the reader’s heart: he compares himself to a pig and describes himself, his appearance, his habits with unflattering words. He makes fun of himself, he calls himself a Jester. Corporeal manifestations as well as immoral actions are frequent. Why should a reader identify him/herself with such a character? And yet, at some point, one feels empathy for him.
Merivel’s story is intertwined with London’s story and
winks both at the picaresque tradition of Tom Jones and the tradition of
diaries as in Pepys or Evelyn: in fact he’s a witness to the great plague
epidemic as well as the Great Fire that almost destroyed London toward the half
of the century. Like any respected rascal, he gets out of both events unharmed.
There’s also an excursus on madness: Merivel joins his dearest Friend Pearce in
some sort of quaker asylum where, alas, he messes things up and is obliged to
marry an inmate after impregnating her. There’s also the unfailing reference to
the shakespearean Ophelia, which is a theme I have been studying a lot.
Merivel, in fact, dreams of his wife’s drowning and the description of her
corpse on the water reminded me of the famous pre-Raphaelite Ophelia by John
Everett Millais: “Her hair streamed among the waterweed and her mouth was
blueish open like the mouth of a fish”.
A film has been made from the book and has Robert
Downley jr in the role of Merivel: I think he’s quite perfect for the part,
except for the fact that he lacks the uglyness and the fatness of the original
character. The cathartic episode of the heart is well portrayed in the film,
even if in that case the king takes notice of Merivel for his daring, while in
the book he gets to court thanks to his father’s intercession. London at the
time of Restoration is beautiful: the costumes, the landscape… everything takes
the audience back in time.
Tremain wrote a sequel to the book, Merivel. A Man of
His Time, which is altogether beautiful: right from the start the reader can
recognize Merivel’s tone, he is surely saddened by life, he’s quite resigned,
he’s older… 20 years have passed: everyone around him is older and his faithful
servant Will is a decrepit old man. The atmosphere pervading the beginning of
the book, as well as the protagonist’s feelings, is melancholy. Merivel tries
to get rid of this feeling for the whole book. The way he writes about this
feeling reveals accurate research and great skills: the reader never perceives
the author’s research. The references are never evident, but you understand
from the way Merivel writes about his feelings, that his mind is tuned to the
Renaissance theory of humours and, above all, that the author knows Robert
Burton’s work (The Anatomy of Melancholy).
According to that theory, a man’s temperament was determined by the influx of
the four elements (air, water, earth, fire) on bodily fluids, called humours. When
one of the four substances prevailed over the other the substances were not in
balance, and so a man was considered sick: melancholy was associated to the
‘black bile’ and Robert Burton in 1621 wrote about it as a sickness with a
cause, consequences and remedies. Merivel’s daughter often rebukes her father
for his condition and he writes about it like something to be healed of… that
kind of sickness is very serious when it affects the King’s jester, because
that’s what Merivel is. He’s well conscious about his role and his sickness
raises fears of compromising his relationship with the King. Merivel is a
doctor at the court of king Charles II, but he doesn’t really belong to the
Royal Physicians, he started his career healing the King’s dogs and had the
King’s benevolence because he was the only one who could make him laugh and
keep him in good humour. In this last book Merivel, who is prone to reflections
under the effects of his melacholy, often refers to King Lear and his
‘foolishness’. He makes some word play when he’s afraid of getting from ‘Fool’
to ‘foolish’ at the eyes of the King.
The episodic structure of the first book is still
there, but this time I felt a strong atmosphere of morality play rather than of
a picaresque novel. You can perceive something of the Pilgrim’s Progress (which is a text belonging to Merivel’s age and
that referred to a the morality play Everyman):
Merivel is an anti-Everyman who, feeling Death close, wants to accomplish something to make his life
worth living but , due to his superficiality, cannot bring any of his good
intentions to an end. There’s a strong parallelism with Bunyan’s pilgrim,
whichi s clear if we take the subtitle of Bunyan’s work into consideration:
‘from this world to that which is to come’. That is exactly Merivel’s journey,
which he accomplishes under the guidance of Pearce’s ghost, his quaker friend
who died of plague in the first book (note that Bunyan was also quaker). The
episodic nature of the book is probably nearer to a pilgrim’s journey than a
picaro’s: the different incidents that continually withdraw the protagonist
from his good intentions are nothing other than obstacles standing in the way
of his Redemption. I think we can find some references in text, first of all
the chapter division: there’s a religious point of view in the passage from
‘The Great Enormity’ to ‘The Great Captivity’, to ‘The Great Consolation’ until
‘The Great Transition’. Those are the stages of an anti-pilgrim’s journey who
can finally, even if he doesn’t make amends for his sins, see his life from the
right perspective (before dying he reads his diary and sees the ‘haste’ and
‘foolery’ and ‘madness’ ruling his life. Another important reference to the
morality play comes from Merivel himself, when he has some kind of epiphany and
writes ‘I was a poor Sir Nobody’… which is indeed the contrary of Everyman.
Another interesting element in this second book is the
constant comparison betwteen humans and animals: right from the first lines of
the first book Merivel has been comparing himself to an animal and he often gives
way to his primary and animal-like needs. In the sequel the image is developed
and becomes a full metaphor: Merivel often compares the people he meets to
animals but, above all, he feels in some way linked to the caged bear he bring
home from Versailles. The first time he has seen it, the bear was crying out
loud in his cage and he was so moved by that condittion that he paid a lot of
money to take it to Bidnold, in England. From that moment on, the bear’s and Merivel’s
destinies are metaphorically linked. The bear’s situation once in Bidnold is
not very different from Merivel’s: ‘It has ceased to howl and is sitting ina
puddle of its own excrement, staring out at the world’. Merivel is no longer
subject to sudden melancholy strokes, like he was in the first chapters, but he’s
still far from having accomplished what he had in mind, he’s still ‘stewing in
his own juice’ while waiting to accomplish anything in his life. After a few pages
he admits: “it was not difficult to imagine myself as the animal in the cage,
constrained as to what success I could ever achieve, after the lamentable
failure of my effort at Versailles’.
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